CODICE DELLA STRADA E RICORSI AL GIUDICE DI PACE
INTERCONNESSIONE COMUNE/ANAGRAFE TRIBUTARIA
REPUBBLICA ITALIANA
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Gustavo ZAGREBELSKY Presidente
- Valerio ONIDA Giudice
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfonso QUARANTA "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 204-bis, comma 3, del
decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada),
disposizione introdotta dall'art. 4, comma 1-septies, del decreto-legge 27
giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della strada),
aggiunto dalla legge di conversione 1° agosto 2003, n. 214, promossi con
ordinanze del 22 settembre 2003 dal Giudice di pace di Mestre, del 28 agosto
2003 dal Giudice di pace di Anzio, del 12 settembre 2003 dal Giudice di pace di
Vietri di Potenza, del 2 ottobre 2003 dal Giudice di pace di Bari, del 30
agosto 2003 dal Giudice di pace di Montepulciano, del 20 ottobre 2003 dal
Giudice di pace di Bari, del 17 ottobre 2003 dal Giudice di pace di Recco, del
9 ottobre 2003 dal Giudice di pace di Reggio Calabria, del 21 ottobre 2003 dal Giudice
di pace di Pratola Peligna, del 17 ottobre 2003 dal Giudice di pace di Pisa,
del 16 ottobre 2003 dal Giudice di pace di Mestre e del 6 ottobre 2003 dal
Giudice di pace di Asiago, rispettivamente iscritte ai nn. 996, 997, 999, 1044,
1047, 1081, 1083, 1087, 1092, 1094, 1095 e 1110 del registro ordinanze 2003 e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 47, 49, 50, 51 e 52,
prima serie speciale, dell'anno 2003.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 10 marzo 2004 il Giudice relatore Alfonso
Quaranta.
Ritenuto in fatto
1.¾ I Giudici di pace di Mestre (r.o. n. 996 e n. 1095 del 2003), Anzio (r.o.
n. 997 del 2003), Vietri di Potenza (r.o. n. 999 del 2003), Bari (r.o. n. 1044
e n. 1081 del 2003), Montepulciano (r.o. n. 1047 del 2003), Recco (r.o. n. 1083
del 2003), Reggio Calabria (r.o. n. 1087 del 2003), Pratola Peligna (r.o. n.
1092 del 2003), Pisa (r.o. n. 1094 del 2003) ed Asiago (r.o. n. 1110 del 2003)
hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 204-bis,
comma 3, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della
strada), disposizione introdotta dall'art. 4, comma 1-septies, del
decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della
strada), aggiunto dalla legge di conversione 1° agosto 2003, n. 214.
Premettono i rimettenti che la norma impugnata – relativa al giudizio
direttamente instaurabile avverso il verbale di contestazione d'infrazione alle
norme sulla circolazione stradale – fa carico a chi agisce, «all'atto del
deposito del ricorso», di «versare presso la cancelleria del giudice di pace, a
pena di inammissibilità del ricorso, una somma pari alla metà del massimo
edittale della sanzione inflitta dall'organo accertatore».
1.1.¾ I Giudici di pace di Mestre e di Anzio, in quelle che risultano in ordine
cronologico le prime due ordinanze relative alla questione in esame (r.o. n.
996 e n. 997 del 2003), deducono la violazione unicamente degli articoli 3 e 24
della Costituzione.
Il primo dei rimettenti (r.o. n. 996 del 2003) – non senza aver sottolineato,
nel ripercorrere in via di estrema sintesi le vicende del giudizio a quo, che
il ricorrente «ha provveduto, come disposto dalla nuova normativa, al deposito
giudiziario della somma» dovuta ex lege – pone preliminarmente in luce come
l'obbligo suddetto si risolva in uno «strumento per ridurre drasticamente il
numero dei procedimenti» giurisdizionali in materia, ciò che darebbe luogo ad
una «grave disparità di trattamento tra i cittadini», precludendo ai non
abbienti di «poter validamente proporre le proprie ragioni in sede
giudiziaria».
Si realizzerebbe, così, una violazione non soltanto dell'art. 3 della
Costituzione (essendo la parità dei cittadini davanti alla legge «enormemente
turbata dall'onere imposto al ricorrente non benestante»), ma pure dell'art.
24, «considerato che, in queste condizioni, i cittadini meno facoltosi» si
vedrebbero «indirettamente privare della possibilità di tutelare i propri
diritti in via giudiziaria, con grave nocumento al principio che la difesa è
diritto inviolabile».
Parimenti, il Giudice di pace di Anzio (r.o. n. 997 del 2003) – nel dedurre la
violazione degli stessi articoli della Costituzione – assume che la norma
impugnata «rappresenta un indubbio ed ingiustificato ostacolo per la tutela in
sede giurisdizionale dei diritti del ricorrente» (essendo questi, di fatto,
indotto «a desistere dall'impugnazione»), concretando inoltre «una manifesta
disparità di trattamento» tra gli utenti della strada, con il favorire
«ingiustificatamente coloro i quali dispongono di maggiore agiatezza
economica».
1.2.¾ Più articolata si rivela la prospettazione del Giudice di pace di Vietri
di Potenza (r.o. n. 999 del 2003), il quale ipotizza il contrasto – oltre che
con gli articoli 3 e 24 – anche con l'art. 2 della Costituzione.
Tale rimettente eccepisce – in primis – l'esistenza di una (doppia) «violazione
del principio di eguaglianza ex art. 3 della Costituzione».
La «novella» al codice della strada avrebbe, a suo dire, «creato di fatto e
riservato sul piano processuale (…) una diversa posizione al ricorrente e alla
Pubblica Amministrazione» (evidente in particolar modo in sede conclusiva del
giudizio, e ciò in quanto l'Amministrazione, in caso di esito processuale a sé
favorevole, «ha immediatamente a disposizione la somma che le è dovuta oltre
sicuramente ad una parte delle spese di causa», considerato che la sanzione
inflitta è di regola «comminata nel minimo edittale»), differenziando, altresì,
«il cittadino abbiente da quello meno abbiente» (giacché soltanto ai primi
sarebbe permesso di poter esercitare la tutela dei propri diritti proponendo
ricorso al giudice ordinario).
Tale situazione di disparità – che il rimettente giudica «ancor più pregnante»
ove «si consideri che lo stesso legislatore, al fine di eliminare gli ostacoli
di carattere economico tra i cittadini, ha previsto con l'art. 26 della legge
689/1981 il pagamento rateale della sanzione (…) “su richiesta dell'interessato
che si trovi in condizioni economiche disagiate”» – non sarebbe mitigata dal
fatto che i soggetti non abbienti possono, pur sempre, «presentare il ricorso
amministrativo (che non prevede il versamento della cauzione)». Se così fosse,
infatti, dovrebbe concludersi che «il ricorso al giudice sia un mezzo di tutela
riservato esclusivamente ai soggetti economicamente agiati» (con violazione
dello stesso art. 2 della Costituzione, atteso che tra i diritti inviolabili
dell'uomo rientra pure «il diritto all'eguaglianza, come valore assoluto della
persona umana e diritto fondamentale dell'individuo»).
L'art. 204-bis del d.lgs. n. 285 del 1992 creerebbe, dunque, in base alle
condizioni economiche del ricorrente e quanto all'accesso alla tutela
giurisdizionale, un “trattamento differenziato”, il quale però – sottolinea il
rimettente – «può trovare legittima applicazione solo ove vi sia
l'indefettibile presenza di ragionevoli motivi», non ravvisabili «nello scopo
di evitare che il cittadino meno abbiente possa ricorrere in sede giurisdizionale
contro i verbali d'infrazione al codice della strada».
1.3. ¾ Il Giudice di pace di Bari, proponendo argomentazioni pressoché
identiche a quelle sopra indicate, ha dedotto – con la prima delle due
ordinanze da esso pronunciate (r.o. n. 1044 del 2003) – l'esistenza di una
violazione degli articoli 3, 24 e 113 della Costituzione.
Dubita il rimettente della legittimità costituzionale della norma impugnata, in
primo luogo, «per difetto di ragionevolezza e disparità di trattamento»,
situazione quest'ultima che vedrebbe contrapposti «il cittadino che per le sue
condizioni economiche è in condizione di depositare la cauzione richiesta» e
colui che, «privo di mezzi o con scarse possibilità economiche», si vede
«preclusa» la possibilità di adire le vie giurisdizionali.
Deduce, inoltre, il suddetto giudice a quo la «violazione dell'art. 24 della
Costituzione, che consente a tutti i cittadini di agire in giudizio per la
tutela dei propri diritti senza limitazioni», avanzando il «sospetto» che il
legislatore abbia voluto, in subiecta materia, «reintrodurre la ripudiata
regola del “solve et repete”».
Eccepisce, infine, il contrasto con l'art. 113 della Costituzione, in quanto la
norma in esame «condiziona notevolmente e senza alcuna plausibile
giustificazione la tutela giurisdizionale dei diritti contro gli atti della
pubblica amministrazione».
I medesimi parametri sono invocati anche dal Giudice di pace di Mestre, nella
seconda delle due ordinanze (r.o. n. 1095 del 2003) emesse da quell'ufficio
giudiziario.
Il rimettente assume che tale norma darebbe vita ad «un'evidente differenza di
trattamento tra i cittadini, in particolare tra coloro che hanno la capacità
patrimoniale per assolvere all'adempimento imposto e coloro che non hanno mezzi
sufficienti per effettuare il pagamento», nonché – tenuto conto che la
proposizione del ricorso amministrativo non è subordinata alla medesima
condizione – ad una «ingiustificata differenza tra i due mezzi di opposizione,
rendendo (…) evidente che il ricorso avanti il giudice di pace diventerebbe uno
strumento di tutela fruibile solo dai soggetti più facoltosi» (con violazione
anche del «secondo comma dell'articolo 3 della Costituzione che sancisce che è
compito della Repubblica rimuovere, non già creare, ostacoli di ordine economico
e sociale che limitano di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini»).
Deduce, inoltre, la violazione del «diritto di difesa sancito dagli articoli 24
e 113 della Costituzione», non essendo la cauzione contemplata dalla norma
suddetta «in alcun modo razionalmente collegata alla pretesa dedotta in
giudizio», né mirando «allo scopo di assicurare al procedimento uno svolgimento
conforme alla sua funzione». Essa, per contro, appare piuttosto «introdotta al
fine di restringere il campo dei possibili ricorrenti avverso provvedimenti
amministrativi».
1.4.¾ Ipotizza, invece, la violazione anche dell'art. 25, primo comma, della
Costituzione (oltre che degli articoli 3 e 24, primo comma,) il Giudice di pace
di Montepulciano (r.o. n. 1047 del 2003).
Questi ritiene, difatti, che l'art. 204-bis del d.lgs. n. 285 del 1992 si ponga
in contrasto «con i principi di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla
legge e di libero accesso alla tutela giurisdizionale dei propri diritti
davanti al giudice naturale precostituito per legge».
Sottolinea che tale norma, «nel prevedere l'obbligatorietà di una cauzione
addirittura per poter accedere alla tutela giurisdizionale», darebbe vita ad
una «inedita (…) doppia discrasia», ed esattamente – da un lato – «tra azioni
esperibili in via giurisdizionale e azioni esperibili in via amministrativa»,
nonché – dall'altro – «all'interno della stessa categoria delle azioni di
carattere giurisdizionale».
Con specifico riferimento a quest'ultimo aspetto, il rimettente pone in luce
come per nessuna azione di carattere giurisdizionale l'ordinamento preveda
l'obbligo di prestare preventivamente cauzione, atteso che, pur essendo tale
istituto «ben conosciuto dalle norme processuali», esse lo contemplano non come
«sbarramento iniziale» per l'accesso alla tutela giurisdizionale, bensì «solo a
giudizio ormai pendente, e a discrezione del giudice». Nel caso in esame,
inoltre, la cauzione – salvo non volere ritenere che la sua imposizione ope
legis si giustifichi in quanto “lo Stato teme per la solvibilità del
ricorrente” – contravverrebbe alla stessa natura dell'istituto, che è «quella
di un deposito di somme di denaro a garanzia di un determinato comportamento
futuro», richiesto a colui che è gravato dalla prestazione della cauzione.
La sua previsione, quindi, risolvendosi in «un'inammissibile anticipazione
della sanzione, perché al ricorrente si chiede di versare subito –
obbligatoriamente e per il solo fatto di chiedere giustizia – ciò che solo il
giudizio di merito potrà eventualmente accertare essere da lui dovuto”,
paleserebbe quale sia la reale finalità avuta di mira dal legislatore, e cioè
di «scoraggiare in maniera ingiustificatamente vessatoria il diritto
inalienabile del cittadino a richiedere giustizia, e richiederla al suo giudice
naturale precostituito per legge» (donde l'ipotizzata violazione pure dell'art.
25, primo comma, della Costituzione).
La scelta, infine, di compromettere «senza ragione il diritto dei cittadini
alla tutela giurisdizionale» – con violazione dei «principi che portarono la
Corte costituzionale, in anni ormai lontani, a dichiarare costituzionalmente
illegittimo l'art. 98 c.p.c. (…) e la c.d. clausola del “solve et repete”» –
sostanzierebbe l'altro profilo di «discrasia» denunciato dal rimettente (quello
tra azioni amministrative e giurisdizionali). Una discrasia, questa, tanto più
grave ove si consideri che «il legislatore della novella ha, al contrario,
ulteriormente facilitato il ricorso al prefetto» (il quale «può essere adito
direttamente, mediante una semplice raccomandata»), alterando in tal modo «il
principio di parità/alternatività tra i due rimedi» e dando vita
«all'introduzione “de facto” nell'ordinamento di un principio di riserva di
amministrazione del tutto incompatibile col sistema costituzionale».
1.5. ¾ Quattro diversi parametri, invece, sono richiamati dal Giudice di pace
di Bari, nella seconda delle ordinanze sopra indicate (r.o. n. 1081 del 2003),
proveniente da tale ufficio giudiziario.
Il rimettente, difatti, ha dedotto che la norma impugnata si porrebbe in
«contrasto con gli articoli 3, 24, 111 e 113 Costituzione».
Premesso che la scelta operata dal legislatore del 2003 «sembra volere
reintrodurre nel nostro ordinamento la regola del “solve et repete”, già
dichiarata incostituzionale in numerose precedenti pronunzie della Corte
costituzionale, a partire dalla sentenza n. 21/1961», il giudice a quo deduce
che la previsione legislativa suddetta – in contrasto con l'art. 3, primo
comma, della Costituzione – «potrebbe non assicurare uguaglianza di trattamento
tra colui che è in grado di assolvere la cauzione preventiva e colui, che pur
potendo astrattamente aver ragione nei confronti dell'amministrazione,
necessariamente soccomberebbe per non poterla corrispondere».
Ipotizza, inoltre, la «violazione del diritto di difesa», atteso che (in
spregio all'art. 24 della Costituzione) «il suo esercizio sarebbe condizionato
dalla maggiore o minore disponibilità economica del singolo».
Assume, infine, la violazione degli articoli 111, secondo comma, e 113, primo e
secondo comma, della Costituzione. L'imposizione di «un previo pagamento
cauzionale a carico del ricorrente» – destinato a convertirsi in caso di sua
soccombenza in un «prelievo totale o parziale in favore» dell'amministrazione –
si tradurrebbe, per un verso, in un «privilegio» in favore di quest'ultima (con
conseguente violazione del principio «di parità delle parti in contraddittorio»
di cui all'art. 111, secondo comma, della Costituzione), rappresentando,
inoltre, «un ingiustificato ostacolo per la tutela in sede giurisdizionale dei
diritti (…) contro gli atti della pubblica amministrazione» (in contrasto con
l'art. 113, primo e secondo comma, della Costituzione).
1.6.¾ Sono accomunate, invece, dalla denuncia della violazione esclusivamente
degli articoli 3 e 24 della Costituzione le ordinanze di rimessione dei Giudici
di pace di Recco (r.o. n. 1083 del 2003), di Reggio Calabria (r.o. n. 1087 del
2003) e di Pisa (r.o. n. 1094 del 2003).
Il primo dei suddetti giudici rimettenti (r.o. n. 1083 del 2003) muove dalla
constatazione che «i casi di cauzione previsti dal codice di rito»
costituiscono «un numerus clausus legato soprattutto a provvedimenti di natura
cautelare e non già alla mera presentazione di domande giudiziali di merito»,
ponendo altresì in luce «la sorte» subita dai «depositi di soccombenza» nel
processo civile, «definitivamente abrogati dall'art. 1 della legge 18 ottobre
1977 n. 793» (Abolizione del deposito per soccombenza nel processo civile).
Evidenzia, inoltre, l'irrazionalità – «in una materia caratterizzata dalla
gratuità (…) e dalla massima semplificazione per le parti», alla stregua di
quanto previsto dall'art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al
sistema penale) – di una disposizione, quale quella censurata, che «pone a
carico del cittadino un costo che, in qualche ipotesi, può anche essere molto
oneroso (…) ed un adempimento, quale quello dell'apertura di un deposito
giudiziario presso l'ufficio postale (…), estremamente complesso».
Assume, infine, la violazione delle norme costituzionali suddette (articoli. 3
e 24 della Costituzione), giacché l'imposizione della cauzione, da un lato,
«ostacola l'esercizio del diritto di agire per la tutela dei propri diritti
proprio in un settore caratterizzato dal fatto di non addossare alcun onere né
economico né tecnico al cittadino», e, dall'altro, «elimina la tutela ai non
abbienti», ciò che renderebbe evidente come «la finalità di questa riforma non
sia se non quella di creare (…) un forte deterrente alla presentazione dei ricorsi
al giudice di......