COLLABORAZIONE CON LE SOPRINTENDENZE SU RITROVAMENTI ARCHEOLOGICI
DICHIARAZIONE PUBBLICA UTILITA’ SOLO CON PROGETTO ESECUTIVO
Determinazione n
Determinazione n. 9/2004
del 19 maggio 2004
“Contenzioso in fase di appalto conseguente ad una o più sospensioni dei
lavori, disposte - in esito a prescrizioni degli organi preposti alla tutela
dei beni culturali - per l’esecuzione di campagne di indagini archeologiche nel
sottosuolo.
Valutazione della possibilità di limitare gli effetti negativi di ordine
economico correlati a tale fattispecie”.
IL CONSIGLIO
PREMESSO CHE:
Nell’ambito della propria attività, questa Autorità si è trovata con una certa
frequenza ad analizzare procedure d’appalto il cui espletamento – in termini di
rispetto dei tempi e dei costi di esecuzione – è stato condizionato da
rinvenimenti archeologici nel sottosuolo e dalle conseguenti attività di scavo
e documentazione, oltre che dalle ulteriori fasi di valutazione e di adozione
degli opportuni provvedimenti di conservazione; iniziative tutte che sono nella
competenza degli organi preposti alla tutela dei beni culturali.
In particolare, nei suddetti casi è risultata ricorrente la sospensione dei
lavori di significativa durata, correlata non solo al tempo materialmente
necessario per lo svolgimento delle indagini archeologiche, ma anche a quello
successivo per la redazione ed approvazione delle varianti in corso d’opera che
tenessero conto del valore dei ritrovamenti e della loro possibile fruizione o,
quanto meno, che ne salvaguardassero l’integrità.
Aldilà dei costi per le maggiori o diverse lavorazioni che a tal fine si
rendono necessarie, le procedure d’appalto per le quali si concretizza
l’evenienza in questione possono comportare impegni economici imprevisti e ben
più significativi, in conseguenza delle richieste delle imprese esecutrici dei
lavori, che si estrinsecano principalmente sotto forma di riserve iscritte, nei
modi di legge, sugli atti contabili ed incentrate sul calcolo degli oneri
derivanti dalla protratta gestione delle attività lavorative di cantiere.
L’insorgenza di un simile contenzioso è sempre e comunque legata ad una
circostanza di oggettivo gravame per l’appaltatore, cui viene precluso il
dispiegamento compiuto di quella capacità organizzativa che deve
contraddistinguere ogni realtà imprenditoriale e che si esprime –
nell’esecuzione delle opere aggiudicate – con un’accurata programmazione
temporale delle singole fasi di lavoro e delle relative sovrapposizioni, delle
forniture, dei noli e via dicendo, al fine di ottimizzare i risultati economici
della gestione dell’appalto.
L’elevata probabilità che ad una sospensione dei lavori, disposta a seguito di
rinvenimenti archeologici (e protratta per il tempo necessario a compiere le
connesse indagini di scavo e documentazione) faccia seguito la rappresentazione
formale di una doglianza dell’impresa, induce quindi a rilevare che il
verificarsi della fattispecie in questione si accompagna quasi sempre ad un
significativo aumento dei costi che la stazione appaltante dovrà sopportare in
dipendenza della controversia avviata, con le possibili conseguenze che ciò può
comportare in termini di giudizio da parte dell’organo di magistratura
contabile.
Ne deriva l’utilità di operare alcune riflessioni sul tema in questione, al
fine di valutare quali possano essere - nell’evenienza di ritrovamenti
archeologici a lavori iniziati e cioè ‘a cantiere aperto’ - le possibilità di
limitare le ricadute negative di ordine economico che tale occorrenza
imprevista può indurre sulla procedura d’appalto in corso.
Tanto premesso, ravvisata l’esigenza e l’importanza di conoscere l’avviso del
Ministero dei Beni e delle Attività Culturali in ordine alle possibili
iniziative da intraprendere, ne sono stati sentiti i rappresentanti
nell’audizione disposta in data 21.4.2004.
In tale sede gli intervenuti hanno dettagliatamente rappresentato che le
problematiche evidenziate investono aspetti da tempo all’attenzione del
Ministero, il quale ha ben presente la necessità di mettere a punto regole
capaci di consentire con pari efficacia l’azione di tutela e la realizzazione
degli appalti “con il minor sacrificio degli operatori”.
Ritenuto in diritto
Una considerazione preliminare riguarda la natura dell’area sulla quale è
prevista la realizzazione dell’opera pubblica, intendendo con ciò se la stessa
sia sottoposta o meno ad uno specifico vincolo archeologico.
In caso affermativo, la normativa vigente prevede che l’organo preposto alla
tutela esprima il proprio parere – di norma in sede di conferenza di servizi –
al fine di chiarire alla stazione appaltante se e a quali condizioni l’opera a
farsi sia compatibile con i principi sui quali si basa la conservazione del
patrimonio culturale e, nel contesto particolare, se l’esecuzione delle
specifiche categorie di lavoro previste dal progetto possa interferire con la
salvaguardia dei resti archeologici presumibilmente esistenti nel sottosuolo.
Questa ipotesi, sufficientemente disciplinata nei suoi aspetti procedurali,
dovrebbe portare ad una conoscenza preventiva degli elementi ostativi alla
proficua esecuzione dei lavori, escludendo perciò (o, quanto meno, riducendo
significativamente) la possibilità che in corso d’opera si verifichino
circostanze impeditive connesse ai ritrovamenti archeologici, con gli effetti
negativi indicati in precedenza.
Appare evidente che il passaggio procedurale appena descritto, benché
articolato in forma semplice e ‘lineare’, non può garantire alcun effetto
realmente positivo se il rapporto fra la stazione appaltante e l’organo
preposto alla tutela non risulta improntato alla massima collaborazione,
diligenza e chiarezza.
Per fare un esempio concreto, se l’amministrazione che ha indetto la conferenza
di servizi presenta in quella sede un progetto privo degli opportuni
approfondimenti di dettaglio in ordine alla tipologia ed alle caratteristiche
geometriche delle strutture di fondazione, non consentirà l’espressione di un
parere compiuto da parte del rappresentante della competente soprintendenza
archeologica, oppure ne potrà ottenere un assenso condizionato alla esecuzione
– in corso d’opera - dei necessari saggi e della correlata valutazione dei
risultati, senza perciò conseguire alcun risultato utile ad evitare
interferenze tra svolgimento della fase esecutiva dell’appalto ed azione di
tutela dei beni archeologici eventualmente presenti.
La Soprintendenza Archeologica competente per territorio, per contro, non può
esimersi dal rappresentare in maniera esaustiva le esigenze derivanti dalle
proprie attribuzioni, senza però dimenticare che il proprio parere interviene
nell’ambito di una procedura d’appalto, la cui finalità è la costruzione di
un’opera pubblica da realizzarsi attraverso un’attività uniformata ai criteri
di cui all’art.1 della legge n.109/94.
Questo non può – ovviamente – significare che gli organi preposti alla tutela
debbano improntare la loro azione riferendosi unicamente al rispetto dei
principi di efficienza, efficacia, tempestività ed economicità dell’azione
amministrativa in materia di appalti.
Difatti, la tutela dei beni archeologici e, più in generale, di quelli
culturali, ha il fine di garantire la fruizione, anche per le generazioni
future, di un patrimonio universale ed inestimabile, la cui conservazione
assume un valore che prescinde da qualsiasi monetizzazione e si pone –
oggettivamente - come principio superiore a quelli indicati dall’art.1 della
legge n.109/94 e perciò prevalente su di essi.
Risulta tuttavia più facile il tentativo di coniugare l’esercizio di ogni
necessaria azione di tutela nell’eventualità di ritrovamenti archeologici ed il
rispetto di tempestività ed economicità nella procedura d’appalto allorquando -
in un’ottica di comprensione dei rispettivi limiti di competenza e margini di
operatività, anche finanziaria - viene assicurata la conoscenza reciproca e
preventiva di tutti gli elementi utili alla valutazione delle problematiche da
affrontare, nonché delle difficoltà connesse.
Ad avviso del competente Ministero - che considera parimenti essenziale
l’azione preventiva – un’opzione praticabile potrebbe essere quella di
‘istituzionalizzare’ la presenza dei tecnici della Soprintendenza sin dalle
prime fasi della progettazione, con il risultato di garantire l’approccio
metodologico più idoneo e l’adozione delle proprie determinazioni su basi
conoscitive certe, evitando di restringere l’espressione del parere di
competenza all’unica sede della conferenza di servizi, in esito alla quale
scaturisce – quasi inevitabilmente - un’autorizzazione subordinata
all’esecuzione di successivi accertamenti.
In sostanza, l’Amministrazione dei BB. e delle AA.CC. delinea ed auspica
l’affermazione di un ruolo differente per le Soprintendenze, superando quello
‘autorizzatorio’ o ‘censorio’, per rivestire quello di piena collaborazione e
di corresponsabilità; in tal senso, la recente attuazione di alcune iniziative
‘pilota’ di collaborazione con altri Enti avrebbe già consentito di
sperimentare una gestione dell’appalto più attenta alle reciproche esigenze.
Comunque, pur nell’ipotesi di una collaborazione anticipata alla fase della
progettazione preliminare, non è infrequente che sopravvenga la necessità
dell’esecuzione di indagini o campagne di scavo preventive, cui consegue
l’esigenza del reperimento delle risorse economiche per dare seguito alle
stesse.
In proposito è noto come le Soprintendenze lamentino la persistente
insufficienza dei fondi per procedere direttamente ed autonomamente
all’espletamento di indagini archeologiche: in quest’ottica si inquadra la
richiesta che debbano essere le stesse amministrazioni appaltanti a dotarsi dei
finanziamenti sufficienti a garantire l’esecuzione delle opportune indagini
archeologiche, da condurre sotto la direzione tecnico-scientifica della
competente Soprintendenza archeologica, così da consentire ad essa la completa
conoscenza dell’area e quindi l’espressione di pareri basati su elementi
scientifici concreti.
In sede di audizione il Ministero ha tenuto ulteriormente a precisare che tale assunto
– già richiamato in alcune disposizioni normative per particolari opere – ha
trovato esplicita conferma nel Nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio
(D.lgs.n.41 del 22.1.04), in vigore dall’1.5.2004, costituendo
conseguenzialmente un obbligo di legge ‘generalizzato’.
Sull’argomento è stato anche aggiunto che le risorse necessarie devono
consentire – in prima analisi – la sola esecuzione di saggi preliminari
condotti sotto la direzione scientifica della Soprintendenza competente, fermo
restando che eventuali ritrovamenti di significativa rilevanza comportano – nel
naturale ordine delle cose – l’obbligatoria richiesta di uno scavo ‘a tappeto’,
con le relative conseguenze in termini di disponibilità dei fondi.
Per contenere gli effetti di questa possibile incertezza finanziaria, il
Ministero ha formulato l’ipotesi concreta di anticipare le indagini
archeologiche già alla fase del progetto preliminare, contenendone l’entità
economica, con la finalità di valutare l’opportunità di proseguire nella progettazione
definitiva e, nel caso, con quali vincoli, nonché con l’obiettivo di valutare
l’esigenza di un successivo scavo ‘integrale’.
Ciò anticiperebbe la cognizione di due aspetti fondamentali:
1) verifica della fattibilità dell’opera programmata;
2) necessità di reperire ulteriori ed adeguate risorse, anche attingendo a
differenti fonti di finanziamento, per assicurare tanto l’esecuzione dello
scavo ‘integrale’, quanto la conservazione e la fruizione di reperti
archeologici di eccezionale importanza.
Risulta infatti evidente come sia difficile che una stazione appaltante possa
essere in grado di disporre di risorse economiche tali da indagare
completamente ed esaustivamente (nell’accezione intesa dalle Soprintendenze
archeologiche) le aree interessate dai vari appalti di opere pubbliche
contemplati nel programma triennale, tanto più che indagini siffatte
finirebbero per costituire dei veri e propri interventi autonomi, il cui
svolgimento – in termini di tempi, costi, valutazione degli esiti e finanche di
esecuzione dell’opera originariamente prevista - sarebbe per di più sottratto
alla potestà discrezionale ed alla connessa responsabilità, poste in capo alle
singole amministrazioni.
Quest’ultima considerazione, tra l’altro, incide anche sul ruolo del responsabile
del procedimento, svuotando parzialmente di significato il possibile richiamo
alle disposizioni regolamentari (artt.18, 19 e 36 del D.P.R. n.554/99), le
quali pongono a carico della stazione appaltante tutti quegli adempimenti
correlati alla progettazione che possano ridurre gli imprevisti in corso
d’opera, e che trovano un loro limite proprio nella fattispecie trattata,
imperniata sulla tutela dei beni archeologici.
Infatti, l’unico organo preposto alla individuazione, con metodo scientifico,
dei beni da tutelare nonché alla determinazione delle relative modalità -
intese sia con riferimento alle tecniche di rilevamento che a quelle di
conservazione - resta, in via esclusiva, la Soprintendenza Archeologica
competente per territorio.
Ciò significa che l’esecuzione preventiva di indagini archeologiche, qualora
venisse disposta unicamente su iniziativa dal Responsabile del procedimento
nominato dalla stazione appaltante, risulterebbe condotta da un soggetto privo
della necessaria legittimazione in ordine alla conoscenza ed all’utilizzo delle
corrette metodiche di scavo, rilievo e catalogazione, nonché – soprattutto - in
ordine alla valutazione dell’importanza che i ritrovamenti rivestono per la
collettività ed alla più opportuna tipologia d’intervento per assicurarne la
fruizione o, quanto meno, per documentarne l’esistenza.
Paradossalmente, un’attività siffatta - benché ispirata dalla volontà di
ridurre gli imprevisti in corso d’opera ed i conseguenti prevedibili oneri -
potrebbe configurare essa stessa un maggior costo, concretizzandosi in
un’attività i cui frutti risultano incerti e quindi privi di una concreta
utilità, sia ai fini della tempestiva conduzione dell’appalto, sia ai fini
della tutela del patrimonio archeologico.
L’anticipazione delle prospezioni archeologiche a cura della competente
Soprintendenza risulta perciò auspicabile, ma deve altresì sottolinearsi come
in molti casi le relative indagini vengano disposte perché non può escludersi -
a priori - la presenza di resti antichi nella zona interessata dal nuovo
intervento e che spesso le strutture riportate alla luce non rivestono
un’importanza tale da imporre un ripensamento dell’intero progetto; anzi – una
volta eseguiti i rilievi grafici e fotografici, documentando l’attività svolta
ed i risultati conseguiti – l’iter può anche concludersi disponendo la
ricopertura di quanto scavato (in particolare quando la conservazione risulti
problematica), al fine di evitarne il degrado.
Se quindi continua ad avere un valore l’affermazione secondo cui “il miglior
museo è la terra”, come può desumersi dalle Carte del restauro e dalle
Convenzioni internazionali (quali la Carta di Atene, che sintetizza l’esito dei
lavori della Conferenza Internazionale del 1931), nulla vieta che l’organo
preposto alla tutela – preso atto della onerosità (e quindi dell’estrema
difficoltà di realizzazione, se non addirittura dell’impossibilità economica)
di compiere un’indagine archeologica ‘a tappeto’ estesa all’intera area di
sedime della nuova costruzione e delle sue pertinenze – esprima un parere
favorevole, per quanto di competenza, subordinando l’esecuzione dei lavori alla
previsione di soluzioni tecniche progettuali non interferenti con il sottosuolo
archeologico (intendendo con tale termine lo strato di terreno, situato ad una
determinata profondità, che può racchiudere in sé i segni dell’attività umana
antica), così da non precludere future eventuali azioni di scavo e
documentazione.
Volendo trarre delle prime conclusioni da quanto sin qui riportato, deve perciò
evidenziarsi che quando l’appalto a farsi insiste su di un’area sottoposta a
vincolo archeologico, la successiva sospensione dei lavori - disposta in esito
a rinvenimenti di significativo interesse – si ricollega ad una circostanza
indubbiamente imprevista, ma che non può definirsi – con altrettanta certezza –
imprevedibile.
Se quindi la stazione appaltante e l’organo di tutela non hanno improntato la
loro azione, ognuno per quanto di rispettiva competenza, a rendere
esaurientemente chiare e precise le condizioni di fattibilità dell’intervento
da realizzare, gli eventuali maggiori oneri connessi alle interruzioni nella
fase esecutiva dei lavori potranno dar luogo a contestazioni di addebito da
parte della Corte dei Conti, rivolte ai soggetti che ne sono stati responsabili.
Fin qui si è trattato della fattispecie in cui la presenza di un vincolo
archeologico impone un vaglio progettuale - ad opera della competente
Soprintendenza – che interviene prima dell’aggiudicazione dell’appalto e,
spesso, prima della redazione del progetto esecutivo, per cui è possibile
operare tutte le valutazioni del caso al fine di evitare che le problematiche
irrisolte si possano tradurre in impedimenti all’atto dell’esecuzione dei
lavori, con le conseguenze economiche e temporali che sono state indicate.
Vi sono però anche i casi in cui sull’area di sedime dell’opera a farsi non
grava uno specifico vincolo archeologico, oppure casi in cui, pur in presenza
dell’anzidetto vincolo, non è possibile eseguire preventivamente tutti i saggi
necessari, per ......