ESPROPRIAZIONI: CRITERI DI COMPUTO DELL'INDENNITA'
EFFICACIA GIURIDICA DELLE CIRCOLARI
SENTENZA N
SENTENZA N. 348
ANNO 2007
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai
signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Ma.a FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Ma.a Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Ma.a NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di
legittimità costituzionale dell'art. 5 bis del decreto legge 11 luglio 1992, n.
333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con
modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359 promossi con ordinanze del 29
maggio e del 19 ottobre 2006 (nn. 2 ordd.) dalla Corte di cassazione,
rispettivamente iscritte ai nn. 402 e 681 del registro ordinanze 2006 ed al n.
2 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell'anno 2006 e nn. 6 e 7, prima serie
speciale, dell'anno 2007.
Visti gli atti di costituzione di R.A., di A.C., di M.T.G., nonché gli atti di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 3 luglio 2007 il Giudice relatore Gaetano
Silvestri;
uditi gli avvocati Fe.Ca. e Fr.Ma. per R.A., Ni.Pa. per A.C., Ni.Pa. e Al.Ma.
per M.T.G. e l'avvocato dello Stato Ga.Pa. per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Ritenuto in fatto
1. -Con
ordinanza depositata il 29 maggio 2006 (r.o. n. 402 del 2006), la Corte di
cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 bis
del decreto legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento
della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto
1992, n. 359 per violazione dell'art. 111, primo e secondo comma, della
Costituzione, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) firmata a Roma il 4
novembre 1950, cui è stata data esecuzione con la legge 4 agosto 1955, n. 848
(Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del
Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo
1952), nonché dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione al citato art. 6
CEDU ed all'art. 1 del primo Protocollo della Convenzione stessa, firmato a
Parigi il 20 marzo 1952, cui è stata data esecuzione con la medesima legge n.
848 del 1955.
La norma è oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della determinazione
dell'indennità di espropriazione dei suoli edificabili, prevede il criterio di
calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale
rivalutato, disponendone altresì l'applicazione ai giudizi in corso alla data
dell'entrata in vigore della legge n. 359 del 1992.
1.1. -La Corte rimettente riferisce che nel giudizio principale la parte
privata R.A., già proprietaria di suoli espropriati per l'attuazione di un
programma di edilizia economica e popolare nel Comune di Torre Annunziata, e
firmataria di un atto di cessione volontaria in data 2 aprile 1982, ha proposto
ricorso avverso la sentenza della Corte d'appello di Napoli del 6 dicembre 2001
per censurare la liquidazione dell'indennità ivi effettuata, in quanto non
adeguata al valore dei beni, anche con riferimento alla mancata rivalutazione
della somma liquidata.
Nel giudizio di legittimità si sono costituiti il Comune di Torre Annunziata,
il quale ha proposto ricorso incidentale, e l'Istituto autonomo case popolari
della Provincia di Napoli.
Con memoria illustrativa la ricorrente R.A. ha eccepito l'illegittimità
costituzionale dell'art. 5 bis del decreto legge n. 333 del 1992, norma
applicata ai fini della quantificazione dell'indennità, per contrasto con gli
artt. 42, terzo comma, 24 e 102 Cost., in quanto il criterio ivi previsto non
garantirebbe un serio ristoro ai proprietari dei suoli espropriati e la sua
applicazione ai giudizi in corso costituirebbe una «indebita ingerenza del
potere legislativo sull'esito del processo». A questo proposito si ricorda come
la Corte europea dei diritti dell'uomo abbia costantemente rilevato il
contrasto del menzionato art. 5 bis con l'art. 1 del primo Protocollo della Convenzione
europea.
La censura della parte ricorrente è estesa all'art. 37 del d.P.R. 8 giugno
2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia di espropriazione per pubblica utilità), in quanto si tratta della
disposizione, oggi vigente, che ha perpetuato il criterio di calcolo censurato.
1.2. -Il rimettente esclude la rilevanza della questione avente ad oggetto la
norma citata da ultimo, in quanto applicabile solo ai procedimenti
espropriativi iniziati a partire dal 1° luglio 2003, secondo la previsione
contenuta nell'art. 57 del medesimo d.P.R. n. 327 del 2001. Nel caso di specie,
invece, il giudizio è iniziato nel 1988.
Al contempo, la Corte di cassazione ritiene rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale della norma di cui
all'art. 5 bis del decreto legge n. 333 del 1992, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992.
1.3.- In merito alla rilevanza della questione sollevata, il rimettente
sottolinea come nella specie si tratti «indiscutibilmente» di suoli
edificabili, ai quali è applicabile il citato art. 5 bis, commi 1 e 2. In
particolare, si evidenzia come l'oggetto del contendere sia costituito dal
«prezzo della cessione volontaria», rectius, «dal conguaglio dovuto rispetto a
quanto a suo tempo convenuto, in applicazione della legge n. 385 del 1980». Il
giudice a quo ricorda, in proposito, che il prezzo della cessione volontaria
deve essere commisurato alla misura dell'indennità di espropriazione; da ciò
consegue che nel giudizio principale è ancora in contestazione la
determinazione dell'indennizzo espropriativo e che l'eventuale ius
superveniens, costituito da un nuovo criterio di determinazione dell'indennità
di espropriazione dei suoli edificabili, troverebbe senz'altro applicazione.
1.4. -Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte di cassazione ritiene di
dover riformulare i termini della questione prospettata dalla parte privata
ricorrente, individuando i parametri costituzionali di riferimento negli artt.
111 e 117 Cost. Il ragionamento è condotto alla luce dell'esame parallelo della
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e di quella
costituzionale in materia di indennizzo espropriativo.
In relazione alla prima, sono richiamate in particolare le sentenze del 29
luglio 2004 e del 29 marzo 2006, entrambe emesse nella causa Scordino contro
Italia, con le quali lo Stato italiano è stato condannato per violazione delle
norme della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Nella pronunzia del
2004, la Corte europea ha censurato l'applicazione, operata dai giudici
nazionali, dell'art. 5 bis ai giudizi in corso, stigmatizzando la portata
retroattiva della norma in parola, come tale lesiva della certezza e della
trasparenza nella sistemazione normativa degli istituti ablatori, oltre che del
diritto della persona al rispetto dei propri beni. Infatti, l'applicazione di
tale criterio ai giudizi in corso ha violato l'affidamento dei soggetti
espropriati, i quali avevano agito in giudizio per essere indennizzati secondo
il criterio del valore venale dei beni, previsto dall'art. 39 della legge 25
giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per pubblica utilità), ripristinato a
seguito della dichiarazione di incostituzionalità delle norme che commisuravano
in generale l'indennizzo al valore agricolo dei terreni (sentenze n. 5 del 1980
e n. 223 del 1983).
Con la sentenza del 2006, invece, la Corte di Strasburgo ha rilevato la
strutturale e sistematica violazione, da parte del legislatore italiano,
dell'art. 1 del primo Protocollo della Convenzione europea, osservando che la
quantificazione dell'indennità in modo irragionevole rispetto al valore del
bene ha determinato, appunto, una situazione strutturale di violazione dei
diritti dell'uomo. Nell'occasione la Corte di Strasburgo ha sottolineato come,
ai sensi dell'art. 46 della Convenzione, lo Stato italiano abbia il dovere di
porre fine a siffatti problemi strutturali attraverso l'adozione di appropriate
misure legali, amministrative e finanziarie.
Sul fronte interno, il giudice rimettente evidenzia come la norma oggetto di
censura sia stata più volte scrutinata dalla Corte costituzionale, che l'ha
ritenuta conforme all'art. 42, terzo comma, Cost., perché introduttiva di un
criterio mediato che assicura un ristoro «non irrisorio» ai soggetti
espropriati, nel rispetto della funzione sociale della proprietà (sentenze n.
283, n. 414 e n. 442 del 1993). Anche sotto il profilo dell'applicazione ai
giudizi in corso, la Corte costituzionale ha respinto le censure affermando, in
particolare nella sentenza n. 283 del 1993, che l'irretroattività delle leggi,
pur costituendo un principio generale dell'ordinamento, non è elevato -fuori
dalla materia penale -al rango di norma costituzionale. Nel caso di specie,
attesa la situazione di carenza normativa che caratterizzava al tempo la
materia (dopo gli interventi caducatori della stessa Corte, con le sentenze n.
5 del 1980 e n. 223 del 1983) e la conseguente applicazione in via suppletiva
del criterio del valore venale, la retroattività dell'intervento legislativo
non poteva dirsi confliggente con il canone della ragionevolezza.
In esito alla disamina risulterebbe evidente, a parere del giudice a quo, che
la questione debba essere posta oggi in riferimento ai diversi parametri individuati
negli artt. 111 e 117 Cost., secondo una prospettiva inedita che è quella del
sopravvenuto contrasto della norma censurata con i principi del giusto processo
e del rispetto degli obblighi internazionali assunti dallo Stato, attraverso il
richiamo delle norme convenzionali contenute nell'art. 6 CEDU e nell'art. 1 del
primo Protocollo, in funzione di parametri interposti.
1.5. -La Corte di cassazione svolge poi una serie di considerazioni per
giustificare il ricorso all'incidente di costituzionalità, sottolineando come
spetti al legislatore la predisposizione dei mezzi necessari per evitare la
violazione strutturale e sistematica dei diritti dell'uomo, denunciata dalla
Corte europea nella sentenza Scordino del 29 marzo 2006, richiamata poco sopra.
In particolare, la stessa Corte rimettente esclude che il giudice nazionale
possa disapplicare l'art. 5 bis, sostituendolo con un criterio frutto del
proprio apprezzamento o facendo rivivere la disciplina previgente.
L'impossibilità di disapplicare la norma interna in contrasto con quella della
Convenzione deriverebbe, a dire della Corte, anche da altre considerazioni. In
primo luogo, va escluso che, in riferimento alle norme CEDU, sia ravvisabile un
meccanismo idoneo a stabilire la sottordinazione della fonte del diritto
nazionale rispetto a quella internazionale, assimilabile alle limitazioni di
sovranità consentite dall'art. 11 Cost., derivanti dalle fonti normative
dell'ordinamento comunitario. Non sembra infatti sostenibile la tesi
dell'avvenuta «comunitarizzazione» della CEDU, ai sensi del par. 2 dell'art. 6
del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, in quanto il rispetto dei
diritti fondamentali, riconosciuti dalla Convenzione, costituisce una direttiva
per le istituzioni comunitarie e «non una norma comunitaria rivolta agli Stati
membri». A conferma di tale ricostruzione, il rimettente richiama il parere
negativo espresso dalla Corte di giustizia allorché fu prospettata l'adesione
della Comunità europea alla CEDU (parere 28 marzo 1996, n. 2/94). Il parere era
fondato sul rilievo che l'adesione avrebbe comportato l'inserimento della
Comunità in un sistema istituzionale distinto, nonché l'integrazione del
complesso delle disposizioni della CEDU nell'ordinamento comunitario. Nella
stessa direzione, la Corte del Lussemburgo ha dichiarato la propria
incompetenza a fornire elementi interpretativi per la valutazione da parte del
giudice nazionale della conformità della normativa interna ai diritti
fondamentali, quali risultano dalla CEDU, e ciò «in quanto tale normativa
riguarda una situazione che non rientra nel campo di applicazione del diritto
comunitario» (Corte giustizia, 29 maggio 1998, causa C-299/95).
Il giudice a quo richiama altresì il principio della soggezione dei giudici
alla legge, sancito dall'art. 101 Cost., che impedirebbe di ritenere
ammissibile un potere (a fortiori, un obbligo) di disapplicazione della
normativa interna, atteso che ciò significherebbe attribuire al potere
giudiziario una funzione di revisione legislativa del tutto estranea al nostro
sistema costituzionale, nel quale l'abrogazione della legge statale rimane
«legata alle ipotesi contemplate dagli artt. 15 disp. prel. cod. civ. e 136
Cost.», mentre il mancato rispetto della regola di conformazione si traduce nel
vizio di violazione di legge, denunziabile dinanzi alla Corte di cassazione (è
richiamata Cass., 26 gennaio 2004, n. 1340), anche se non mancano opinioni che
attenuano ulteriormente l'efficacia vincolante delle pronunce della Corte
europea dei diritti dell'uomo (Cass., 26 aprile 2005, n. 8600, e 15 settembre
2005, n. 18249).
A tutto concedere, secondo la Corte rimettente, un vincolo all'interpretazione
del giudice nazionale sarebbe ravvisabile ove la norma interna costituisca,
come nella disciplina dell'equa riparazione per irragionevole durata del
processo, la riproduzione di norme convenzionali, per le quali i precedenti
della Corte di Strasburgo costituiscono riferimento obbligato, ovvero quando la
norma convenzionale sia immediatamente precettiva, e comunque di chiara
interpretazione, e non emerga un conflitto interpretativo tra il giudice
nazionale e quello europeo (è richiamata Cass., 19 luglio 2002, n. 10542).
Diversamente, in caso di disapplicazione dell'art. 5 bis, si porrebbe il
problema della sostituzione del criterio ivi indicato con quello previsto dalla
normativa previgente, ovvero con un criterio rimesso all'apprezzamento del
giudice.
Al riguardo, il giudice a quo esprime perplessità circa l'incidenza, in ipotesi
di disapplicazione dell'art. 5 bis, della norma suppletiva costituita dall'art.
39 della legge n. 2359 del 1865, che fa riferimento al valore venale dei beni e
che è richiamata dalla sentenza 29 luglio 2004 della Corte di Strasburgo come
criterio sul quale poggiava l'affidamento delle parti ricorrenti al momento
dell'instaurazione del giudizio. Detta norma, infatti, non costituisce «regola
tendenziale dell'ordinamento», in quanto non essenziale per la funzione sociale
riconosciuta alla proprietà dalla Carta fondamentale, secondo l'affermazione costante
della giurisprudenza costituzionale (sono richiamate le sentenze n. 61 del
1957, n. 231 del 1984, n. 173 del 1991, n. 138 del 1993 e n. 283 del 1993),
mentre l'art. 5 bis, come già evidenziato, è stato ritenuto conforme a
Costituzione anche sotto il profilo della efficacia retroattiva. In definitiva,
in caso di disapplicazione della norma censurata, il giudice sarebbe chiamato
ad individuare un criterio di determinazione dell'indennizzo che, pur non
essendo coincidente con il valore di mercato dei beni ablati, attesa la
funzionalizzazione del diritto dominicale alla pubblica utilità, sia comunque
idoneo ad assicurare un quid pluris rispetto al criterio contenuto nell'art. 5
bis, così compiendo un'operazione «palesemente ammantata da margini di discrezionalità
che competono solo al legislatore», anche per la necessità di reperire i mezzi
finanziari per farvi fronte.
Il rimettente evidenzia come la stessa giurisprudenza CEDU non sia univoca con
riferimento alla identificazione del valore venale dei beni quale unico
criterio indennitario ammissibile alla luce dell'art. 1 del primo Protocollo.
Infatti, mentre nella citata pronuncia del 29 marzo 2006 la Corte europea ha
affermato che solo un indennizzo pari al valore del bene può essere
ragionevolmente rapportato al sacrificio imposto, fatti salvi i casi
riconducibili a situazioni eccezionali di mutamento del sistema costituzionale
(è richiamata la sent......