INCOMPATIBILITA' TRA PROFESSIONE LEGALE E LAVORO PUBBLICO PART-TIME
LEGITTIMO PEDINARE IL DIPENDENTE CON DUE LAVORI
Corte costituzionale - Sentenza 8-21 novembre 2006 n
Corte costituzionale - Sentenza 8-21 novembre 2006
n. 390 Presidente Bile - Relatore Vaccarella
Ritenuto in fatto
1. Il Tribunale di Napoli ha sollevato, in
riferimento agli articoli 3 e 4 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale degli articoli 1 e 2 della legge 25 novembre 2003, n. 339 (Norme
in materia di incompatibilità dell'esercizio della professione di avvocato).
L'art. 1 della legge impugnata prevede che le disposizioni di cui all'articolo
1, commi 56, 56 bis e 57, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di
razionalizzazione della finanza pubblica), - le quali consentono l'iscrizione
dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo
parziale agli albi professionali quando la prestazione lavorativa non sia
superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno (c.d. part time ridotto) -
«non si applicano all'iscrizione agli albi degli avvocati, per i quali restano
fermi i limiti e i divieti di cui al regio decreto legge 27 novembre 1933, n.
1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36 e
successive modificazioni».
Il successivo art. 2, a sua volta, dispone: «I pubblici dipendenti che hanno
ottenuto l'iscrizione all'albo degli avvocati successivamente alla data di
entrata in vigore della legge 23 dicembre 1996, n. 662 e risultano ancora
iscritti, possono optare per il mantenimento del rapporto d'impiego, dandone
comunicazione al consiglio dell'ordine presso il quale risultano iscritti,
entro trentasei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. In
mancanza di comunicazione entro il termine previsto, i consigli degli ordini
degli avvocati provvedono alla cancellazione di ufficio dell'iscritto al
proprio albo» (comma 1); «Il pubblico dipendente, nell'ipotesi di cui al comma
1, ha diritto ad essere reintegrato nel rapporto di lavoro a tempo pieno»
(comma 2); «Entro lo stesso termine di trentasei mesi di cui al comma 1, il
pubblico dipendente può optare per la cessazione del rapporto di impiego e
conseguentemente mantenere l'iscrizione all'albo degli avvocati» (comma 3); «Il
dipendente pubblico part time che ha esercitato l'opzione per la professione
forense ai sensi della presente legge conserva per cinque anni il diritto alla
riammissione in servizio a tempo pieno entro tre mesi dalla richiesta, purché
non in soprannumero, nella qualifica ricoperta al momento dell'opzione presso
l'Amministrazione di appartenenza. In tal caso l'anzianità resta sospesa per
tutto il periodo di cessazione dal servizio e ricomincia a decorrere dalla data
di riammissione» (comma 4).
1.1.1. In punto di rilevanza, riferisce il Tribunale che un dipendente
dell'Avvocatura dello Stato con qualifica di operatore amministrativo, in
possesso dell'abilitazione all'esercizio della professione forense, aveva chiesto
all'amministrazione, ai sensi dell'art. 1, comma 58, della legge n. 662 del
1996 la trasformazione del proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto
di lavoro a tempo parziale (part time), al fine di esercitare la professione di
avvocato; che l'amministrazione gli aveva negato tale trasformazione, motivando
il diniego con il conflitto d'interessi che sarebbe scaturito dalla
prosecuzione del rapporto di lavoro con l'Avvocatura e dal contestuale
esercizio della professione forense; che il dipendente, lamentando
l'illegittimità del diniego opposto dall'amministrazione, poiché questa, ai
sensi del citato art. 1, comma 58, avrebbe solo dovuto prendere atto
dell'opzione formulata dal ricorrente, chiedeva dichiararsi l'avvenuta
trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno con l'Avvocatura in
rapporto di lavoro part time, con condanna dell'amministrazione al risarcimento
del danno per perdita di chance; che si era ritualmente costituita la
Presidenza del Consiglio dei ministri, eccependo l'infondatezza delle ragioni
poste a base della domanda e concludendo per il suo rigetto; che si era altresì
costituita, in qualità di interventore volontario, l'associazione Adip-Avvocati
dipendenti pubblici a tempo parziale, deducendo che, essendo entrata in vigore
- nel corso del giudizio - la legge n. 339 del 2003 ai pubblici dipendenti era
nuovamente impedito di iscriversi all'albo degli avvocati, essendo stato reso
ad essi inapplicabile l'art. 1, commi 56, 56 bis e 57, della legge n. 662 del
1996 ed essendo stato, invece, ripristinato il divieto di cui al r.d.l. 27
novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio
1934, n. 36 e successive modificazioni; che l'Adip aveva, pertanto, sollevato
eccezione di legittimità costituzionale, sotto numerosi profili, degli artt. 1
e 2 della legge n. 339 del 2003, comunque concludendo per il diritto del
dipendente ad ottenere la trasformazione in rapporto part time del proprio
rapporto di lavoro a tempo pieno con l'Avvocatura dello Stato.
1.1.2. Ad avviso del Tribunale gli artt. 1 e 2 della legge n. 339 del 2003
violerebbero, anzitutto, l'art. 3 Cost., introducendo una serie di disparità di
trattamento sia rispetto a pubblici dipendenti che svolgono attività
professionali diverse da quella di avvocato, sia rispetto a pubblici dipendenti
in servizio presso amministrazioni statali diverse dall'Avvocatura dello Stato.
Sotto il primo profilo, mentre l'esercizio della professione di avvocato è
preclusa ai pubblici dipendenti con rapporto di lavoro part time, analoga
preclusione non esiste per i pubblici dipendenti abilitati all'esercizio di
altre professioni, come, ad esempio, quella di commercialista o quella di
ingegnere.
Sotto il secondo profilo, l'art. 3 del r.d.l. n. 1578 del 1933, richiamato
dall'impugnato art. 1 della legge n. 339 del 2003, nel ritenere incompatibile
la professione di avvocato con quella di pubblico dipendente, fa eccezione per
«i professori degli istituti secondari dello Stato». Questi ultimi, pertanto,
pur essendo dipendenti statali, non subiscono alcuna limitazione ai fini
dell'esercizio della professione forense, non essendo neanche richiesta la
trasformazione del loro rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro
part time.
Ulteriore disparità di trattamento sussisterebbe fra gli impiegati pubblici cui
è fatto divieto (salva la suddetta eccezione) di svolgere la professione di
avvocato successivamente all'entrata in vigore dell'art. 1 della legge n. 339
del 2003 e quelli che, prima dell'entrata in vigore di tale legge, siano stati
collocati in part time ridotto ed abbiano ottenuto l'iscrizione all'albo degli
avvocati, cui l'art. 2 della stessa legge riconosce il diritto di optare entro
36 mesi tra l'impiego pubblico, con conseguente cancellazione dall'albo, e la
professione forense, con l'ulteriore possibilità, entro cinque anni
dall'eventuale decisione di proseguire la professione forense, di rientrare
nell'amministrazione di appartenenza.
Un'ultima disparità di trattamento si verificherebbe tra gli avvocati iscritti
all'albo dopo l'entrata in vigore della legge n. 662 del 1996 dei quali l'art.
2 dispone la cancellazione d'ufficio da parte dei consigli dell'ordine, e gli
avvocati iscritti all'albo prima dell'entrata in vigore della legge n. 662 del
1996 e che dopo tale legge siano stati assunti da una pubblica amministrazione
come dipendenti pubblici a tempo parziale.
Questi ultimi dipendenti, oltre a non avere nessun onere di opzione tra
avvocatura e pubblico impiego, non sarebbero, infatti, neanche soggetti alla
cancellazione d'ufficio in mancanza di opzione nel triennio e andrebbero
incontro alla cancellazione dall'albo solo nell'ipotesi in cui, a seguito di
una revisione dell'albo, risultasse la loro situazione di incompatibilità.
Aggiunge il rimettente che gli artt. 1 e 2 della legge n. 339 del 2003
contrastano anche con l'art. 4 Cost., poiché la discrezionalità del legislatore
nello stabilire i modi e i tempi di attuazione del diritto al lavoro sarebbe
stata, nella specie, «esercitata [...] in modo irragionevole nella misura in
cui le disposizioni soggette a censura sono intese a impedire, ovvero a
limitare, l'accesso di tutti i soggetti, in possesso dei prescritti requisiti,
alla libera professione, nell'ambito di un mercato concorrenziale. E ciò tanto
più se si tiene conto, avuto riguardo all'attività forense, di recenti
interventi del legislatore ( d.lgs. n. 96 del 2001) volti a facilitare
l'esercizio permanente della stessa attività da parte degli avvocati cittadini
di uno Stato membro dell'Unione Europea».
1.2. Si sono costituiti il ricorrente nel giudizio principale e l'interveniente
Adip-Avvocati dipendenti pubblici a tempo parziale, entrambi ribadendo le
ragioni a sostegno dell'illegittimità costituzionale delle norme impugnate;
l'Adip ha altresì depositato memoria nell'imminenza dell'udienza.
1.2.1. Si è altresì costituito, ed ha successivamente depositato memoria,
l'Oua-Organismo unitario dell'avvocatura, ritenendosi legittimata ad
intervenire in giudizio, «quale organo del Congresso nazionale forense», «per
rappresentare e tutelare gli interessi giuridici appartenenti alla classe
forense nelle sue vesti istituzionalizzate».
2. Il Tribunale di Cuneo - nel corso di un giudizio nel quale
un dipendente della Provincia di Cuneo con qualifica di impiegato di livello
C3, profilo di agente caccia e pesca, aveva impugnato il provvedimento col
quale l'amministrazione provinciale aveva respinto la sua domanda di
trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro part
time, con orario pari al 50 per cento di quello a tempo pieno, motivata con
l'intenzione di esercitare la professione di avvocato - ha sollevato questione
di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 25 novembre 2003 n. 339
in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione.
2.1.1. Riferisce il Tribunale che il part time era stato negato
dall'amministrazione sul rilievo che la legge n. 339 del 2003 aveva sancito
l'incompatibilità tra la posizione di pubblico dipendente in regime di c.d.
part time ridotto (vale a dire con prestazione lavorativa non superiore al
cinquanta per cento di quella a tempo pieno) e l'esercizio della professione di
avvocato.
Sollevata dal ricorrente la questione di legittimità costituzionale di tale
ultima disposizione, il giudice l'ha ritenuta rilevante e non manifestamente
infondata con riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione.
2.1.2. In punto rilevanza, osserva il Tribunale che l'unico ostacolo allo
svolgimento della libera professione di avvocato da parte del ricorrente è
rappresentato dal divieto reintrodotto dall'art. 1 della legge n. 339 del 2003
divieto che costituisce altresì l'unico motivo in base al quale la Provincia di
Cuneo ha negato il part time al ricorrente, avendo quest'ultimo dichiarato
nella relativa domanda che la richiesta di trasformazione del rapporto di
lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale era finalizzata
allo svolgimento dell'attività di avvocato.
2.1.3. Quanto alla violazione dell'art. 3 Cost., osserva il remittente che, nel
quadro legislativo attuale, in cui vige il principio generale secondo cui il
pubblico dipendente in regime di part time ridotto può esercitare la libera
professione per la quale abbia conseguito la richiesta abilitazione, il divieto
di iscrizione agli albi degli avvocati, fatto rivivere dall'art. 1 della legge
n. 339 del 2003 rappresenta una lex specialis, dal momento che analogo divieto
non vale con riferimento a tutte le altre libere professioni (medici,
ingegneri, architetti, commercialisti, geometri, ragionieri, ecc.). Peraltro,
la normativa censurata non trova giustificazione né in principi di rango
costituzionale, né in ragioni che rendano effettivamente diversa la situazione
del pubblico dipendente che esercita la professione di avvocato da quella del
pubblico dipendente che svolge qualsiasi altra professione liberale, né in
esigenze proprie della pubblica amministrazione.
In particolare, non sarebbe persuasiva l'affermazione, ricorrente nei lavori
preparatori della legge n. 339 del 2003 per cui il divieto di esercizio della
professione di avvocato da parte del pubblico dipendente in regime di part time
c.d. ridotto avrebbe come finalità quella di assicurare l'indipendenza del
difensore (intesa in senso ampio e tecnico di mancanza di subordinazione) e
l'inviolabilità del diritto di difesa garantito dall'art. 24 della
Costituzione. Invero, l'idoneità allo svolgimento della professione di avvocato
è attestata, per quanto riguarda il possesso delle capacità e delle cognizioni
tecniche, dal superamento dell'esame di Stato che l'aspirante deve
obbligatoriamente sostenere per conseguire l'abilitazione all'esercizio della
professione. Quanto, poi, alla fedeltà al mandato conferito dal cliente, «essa
non appare affatto pregiudicata dal rapporto di dipendenza con la pubblica amministrazione,
in quanto nell'esercizio della professione di avvocato il pubblico dipendente
non è soggetto agli ordini e alla direttive della datrice di lavoro, ma
esclusivamente alle norme deontologiche valide per tutti gli iscritti
all'ordine (e al riguardo vengono in considerazione il Codice deontologico
approvato dal Consiglio nazionale forense il 17 aprile 1997 e quello europeo,
approvato dal Consiglio degli ordini forensi europei il 28 ottobre 1998), norme
la cui osservanza è presidiata da sanzioni disciplinari e, ove occorra, anche
da sanzioni penali (artt. 380 e 622 c.p.) ».
Ancor meno convincente, secondo il Tribunale, sarebbe l'ulteriore affermazione,
pur essa ricorrente nei lavori parlamentari, secondo la quale la possibilità
che i dipendenti delle pubbliche amministrazioni possano essere iscritti agli
albi degli avvocati verrebbe ad instaurare «uno strano rapporto di interazione
pubblico-privato per cui il prestigio del difensore non sarà più basato sulla
sua professionalità, ma sul suo potere nell'ambito dell'amministrazione, con
creazione di una clientela al di fuori di una corretta concorrenza
professionale e di una commistione di interessi privati in attività pubbliche».
A giudizio del rimettente, situazioni del genere «vanno, se del caso, affrontate
e risolte con la previsione di limitazioni territoriali all'esercizio della
professione di avvocato da parte del pubblico dipendente» che occupi, in seno
all'amministrazione, «una posizione suscettibile di fungere da richiamo di
clientela (si pensi all'avvocato che contemporaneamente è anche cancelliere o
ufficiale giudiziario) e non già con l'introduzione di un divieto generale ed
indiscriminato avente come destinatario qualsiasi pubblico dipendente e quindi
anche quello che dalle mansioni svolte presso l'amministrazione di appartenenza
non può trarre alcun indebito vantaggio ai fini del reperimento della clientela
(come è il caso del ricorrente, dipendente della Provincia di Cuneo con
qualifica di impiegato di livello C3, profilo di agente caccia e pesca) ». In
ogni caso, la medesima commistione di interessi varrebbe per altre professioni
liberali (si pensi all'esercizio della professione di architetto o di geometra
da parte di un impiegato in servizio presso un ufficio tecnico comunale), con
riferimento alle quali, tuttavia, non è previsto analogo divieto. Del resto, il
timore che il prestigio del difensore possa basarsi, anziché sulle qualità
personali, sulle funzioni pubbliche ricoperte «non ha impedito al legislatore
di sancire la compatibilità dell'esercizio della professione di avvocato con
l'attività di professore di università o istituti secondari statali o con
incarichi quali quelli di giudice di pace, giudice tributario, giudice onorario
di tribunale e vice procuratore onorario (anzi addirittura i V.P.O. possono
esercitare la professione di avvocato anche nella stessa circoscrizione purché
in sedi distaccate) ».
Quanto, poi, all'esigenza di garantire l'imparzialità e il buon andamento
dell'amministrazione, la normativa vigente già prevede - continua il rimettente
- una serie di limiti che appare idonea a salvaguardare l'anzidetta esigenza,
come ha messo in luce la Corte costituzionale con la sentenza n. 189 del 2001,
che ha dichiarato non fondate tutte le questioni di legittimità costituzionale
dell'art. 1, commi 56 e 56 bis, della legge n. 662 del 1996 sollevate dal
Consiglio nazionale forense con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 97 e 98 Cost.
Invero, l'art. 1 della legge n. 662 del 1996 nell'abrogare il divieto di
iscrizione agli albi degli avvocati nei confronti dei pubblici dipendenti in
regime di part time ridotto, ha stabilito:
al comma 56 bis (introdotto dal d.l. 28 marzo 1997, n. 79 convertito, con
modificazioni, dalla legge 28 maggio 1997, n. 140), che ai suddetti dipendenti
non solo non possono essere conferiti incarichi da parte della pubblica
amministrazione, ma che non è neppure consentito loro di assumere il patrocinio
in controversie di cui questa sia parte;
al comma 58, che l'amministrazione possa negare la trasformazione del rapporto
a tempo pieno in part time nel caso in cui l'ulteriore attività di lavoro
(subordinato o autonomo) del dipendente «comporti un conflitto di interessi con
la specifica attività di servizio svolta», ovvero di differire la
trasformazione stessa, per un periodo non superiore a sei mesi, allorché possa
derivarne grave pregiudiz......