MODIFICA DEL REGOLAMENTO DEI CONCORSI PRIMA DEL BANDO
Esenzione dall'obbligo di reperibilità: visita fiscale facoltativa
Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 17 novembre-8
febbraio 2010 n
Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 17 novembre-8
febbraio 2010 n. 4979
Nel
reato di abuso d’ufficio (articolo 323 Codice penale), si richiede il dolo
intenzionale, nel senso che l’agente deve aver agito proprio per perseguire uno
degli eventi tipici della fattispecie incriminatrice, ossia l’ingiusto profitto
patrimoniale, per sé o per altri, ovvero l’altrui danno ingiusto. In altri
termini, non è sufficiente che il soggetto attivo agisca con dolo diretto, cioè
che si rappresenti l’evento come verificabile con elevato grado di probabilità,
né che agisca con dolo eventuale, nel senso che accetti il rischio del suo
verificarsi, ma è necessario che l’evento di danno o quello di vantaggio sia
voluto e realizzato come obiettivo immediato e diretto della condotta, e non
risulti semplicemente realizzato come risultato accessorio di questa.
Ritenuto in fatto e in diritto
Be.Ro.,
sindaco del Comune di (omesso), e Ra.Pi., funzionario dello stesso Comune,
venivano rinviati a giudizio in ordine al reato di abuso di ufficio per avere,
in concorso tra loro e con alcuni componenti della Giunta, bandito un concorso
per il posto di comandante della polizia municipale, dopo avere fatto apportare
le opportune modifiche al regolamento comunale al fine di consentire
l’assunzione di Ca.Br., già individuato come vincitore del concorso ancor prima
del bando e procurando così a questi un ingiusto vantaggio patrimoniale.
Il
Tribunale di Lucca, con sentenza del 7 dicembre 2007, assolveva tutti gli
imputati ritenendo non sussistente il reato di cui all’articolo 323 c.p., per
la mancanza della violazione di legge o di regolamento. Secondo i giudici di
primo grado l’imputazione faceva riferimento a norme generali e di principio,
prive di carattere precettivo, come l’articolo 97 Cost., ovvero a disposizioni
del C.C.N.L., espressioni di autonomia negoziale.
Sull’impugnazione
del pubblico ministero la Corte d’appello di Firenze, con la decisione in
epigrafe, ha riformato parzialmente la prima sentenza, riconoscendo la
responsabilità di Be. e Ra. e confermando l’assoluzione per i componenti della
Giunta.
Secondo
i giudici d’appello le condotte poste in essere dai due imputati volte a
favorire Ca. nel concorso al posto di comandante della polizia municipale
avrebbero violato il principio di imparzialità dell’amministrazione di cui
all’articolo 97 Cost., ritenendo, a differenza di quanto sostenuto dal
Tribunale, che la disposizione costituzionale abbia un contenuto precettivo,
almeno quando impone al pubblico funzionario il divieto di favoritismi,
dettando così una vera e propria regola di comportamento di immediata
applicazione anche per il reato di abuso d’ufficio.
All’affermazione
della responsabilità dei due imputati è conseguita la condanna alla pena di
dieci mesi di reclusione, per il Be., e di otto mesi di reclusione per il Ra.,
con i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione
della condanna per entrambi. I due imputati, tramite i loro difensori di
fiducia, hanno proposto distinti ricorsi per cassazione.
Con il
primo motivo, comune ad entrambi i ricorsi, deducono l’erronea applicazione
dell’articolo 323 c.p., per avere la Corte d’appello ritenuto integrato
l’elemento oggettivo della violazione di legge o di regolamento con riferimento
all’articolo 97 Cost. Secondo i ricorrenti la genericità e l’indeterminatezza
dei concetti di buon andamento e imparzialità escludono l’immediata
applicabilità dell’articolo 97 Cost., comma 1, in quanto tale norma non fissa
regole di comportamento compiute e dettagliate, ma solo principi privi di
contenuto precettivo, rispetto ai quali è sempre necessaria la mediazione
legislativa, in altri termini, si assume che il principio di imparzialità per
avere carattere precettivo deve essere specificato da una norma di legge.
Inoltre, viene precisato che non trova applicazione quella giurisprudenza della
Cassazione, citata dai giudici di appello, secondo cui, in determinate ipotesi,
la violazione dell’articolo 97 Cost., può integrare il reato di abuso
d’ufficio, in quanto nella specie le condotte contestate attengono sicuramente
al momento dell’organizzazione della pubblica amministrazione - trattandosi di
procedure selettive predisposte per l’accesso al pubblico impiego -, sicché il
principio di imparzialità non presenta carattere precettivo.
Sotto
altro profilo i ricorrenti rilevano come, anche ammettendo la portata
precettiva del menzionato articolo 97 Cost., deve riconoscersi che non vi è
stata alcuna violazione di questa norma, dal momento che la valorizzazione del
servizio svolto rispetto al titolo di studio è stata una scelta funzionale non
a favorire il Ca., ma ad individuare, attraverso il concorso, una persona in
grado di risolvere la situazione contingente di contrasti interni e di mancanza
di disciplina creatasi all’interno di Corpo della polizia municipale,
situazione che necessitava di una conduzione sicura e di «polso» che poteva
essere garantita dall’esperienza più che dal titolo di studio.
Comune
ai due ricorrenti è anche il motivo con cui si censura la motivazione della
sentenza impugnata là dove, a sostegno della tesi accusatoria, sottolinea che
nella redazione del bando non siano stati tenuti in considerazione neppure i
pareri richiesti al professore Ta. e all’avvocato T., circa la valutazione del
titolo di studio. A questo proposito viene rilevato un travisamento del
contenuto dei pareri e, soprattutto, della testimonianza del Ta.
Infine,
entrambi i ricorrenti deducono l’erronea applicazione della norma
incriminatrice con riferimento all’elemento soggettivo del reato, peraltro
rilevando la mancanza di motivazione sul punto e l’assenza di ogni vaglio
critico sulle testimonianze di Fo., An., Na. e Qu., necessario per accertare
che il sindaco avesse effettivamente già deciso la nomina del Ca. Inoltre, si
sottolinea, sempre con riferimento all’elemento soggettivo, che emerge dagli
atti, anche tenendo conto della cautela con cui si è mossa l’amministrazione
comunale che ha richiesto appositi pareri ad esperti del settore, come la
condotta del Be., che non aveva alcun rapporto personale con il Ca., sia stata
ispirata comunque al perseguimento dell’interesse pubblico.
Per
quanto riguarda la posizione del Ra., nel suo ricorso viene dedotta anche la
mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla commissione
del fatto. Si rileva la grave carenza motivazionale della sentenza, che non
spiega il contributo del Ra. alla commissione del reato e che non tiene conto
né del fatto che non fu l’imputato a contattare il prof. Ta., né che non fu lui
a redigere il bando. In ogni caso, si rileva che le condotte contestate al Ra.,
asseritamente consistite nell’aver seguito fedelmente le disposizioni del
sindaco, acquisendo i pareri richiesti, appaiono del tutto irrilevanti ai fini
dell’integrazione del reato.
I
ricorsi sono fondati con riferimento alla carenza dell’elemento soggettivo del
reato. Come è noto nel reato di abuso d’ufficio si richiede il dolo c.d.
intenzionale, nel senso che l’agente deve aver agito proprio per perseguire uno
degli eventi tipici della fattispecie incriminatrice, ossia l’ingiusto
vantaggio patrimoniale, per sé o per altri, ovvero l’altrui danno ingiusto. In
altri termini, non è sufficiente che il soggetto attivo agisca con dolo diretto,
cioè che si rappresenti l’evento come verificabile con elevato grado di
probabilità, né che agisca con dolo eventuale, nel senso che accetti il rischio
del suo verificarsi, ma è necessario che l’evento di danno o il vantaggio sia
voluto come obiettivo del suo operato e non semplicemente realizzato come
risultato accessorio della sua condotta, sia quindi conseguenza diretta e
immediata dell’azione posta in essere (Sez. 6, 1° giugno 2000, 8745, Spitella;
Sez. 6, 7 luglio 2000, n. 10448, Bellino). A differenza che nella precedente
formulazione, l’articolo 323 c.p., non ritiene più irrilevante il conseguimento
del fine, per cui qualora manchi la prova che l’uno o l’altro evento realizzato
costituisse il fine perseguito dall’agente, deve escludersi la sussistenza del
reato. Nella specie, dalla ricostruzione del fatto contenuto nelle sentenze di
merito risulta con una certa evidenza che la scelta di prefigurare un «profilo»
del candidato al posto di comandante della polizia municipale che valorizzasse
l’esperienza rispetto ai titoli di studio rispondesse a precise esigenze
dell’amministrazione comunale, in cui vi era la necessità di risolvere, per un
periodo limitato, una situazione di conflittualità venuta a crearsi all’interno
del corpo dei vigili urbani. In altri termini, non risulta che i due imputati,
nelle loro rispettive posizioni, abbiano agito allo scopo di avvantaggiare
Ca.Br., in quanto la loro azione è stata diretta, in buona fede, al
perseguimento dell’interesse pubblico.
La
mancanza dell’elemento soggettivo impone l’annullamento della sentenza
impugnata perché il fatto non costituisce reato.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza
impugnata perché il fatto non costituisce reato.
......