RETTA CASA-FAMIGLIA PER MINORE CON GENITORE
Lombardia/Eletto il Consiglio delle Autonomie locali
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Sentenza 3.9.2010 n. 19036
Composta dagli Ill.mi
Sigg.ri Magistrati:
Dott. PANEBIANCO Ugo
Riccardo - Presidente -
Dott. SALVAGO Salvatore -
Consigliere -
Dott. CECCHERINI Aldo -
Consigliere -
Dott. NAPPI Aniello -
Consigliere -
Dott. DOGLIOTTI Massimo -
rel. Consigliere -
ha pronunciato la
seguente: sentenza
sul ricorso 23339/2005
proposto da:
COMUNE DI xx – ricorrente
-
contro
COOPERATIVA xxxx S.R.L.,
- controricorrente -
avverso la sentenza n.
301/2005 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 11/05/2005;
udita la relazione della
causa svolta nella Pubblica udienza del 28/04/2010 dal Consigliere Dott.
MASSIMO DOGLIOTTI;
udito, per il ricorrente,
l’Avvocato COGO (con delega) che ha chiesto l’accoglimento del ricorso; udito
il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CENICCOLA
Raffaele, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Fatto
Con atto di citazione
notificato in data 22-7-2000, la Cooperativa sociale xxxx A.r.l., conveniva in
giudizio il Comune di xx per sentirlo condannare al pagamento di somma relativa
alle spese di vitto ed alloggio di M.L., madre della minore O. A., affidata
alla casa-famiglia “(OMISSIS)” con provvedimento de Tribunale di Lecce del
26-11-1999 che pure aveva disposto la permanenza della madre in detta casa
famiglia.
Il Comune di xx non si
costituiva, nonostante regolare notifica, e se ne dichiarava la contumacia.
Il Tribunale di Brindisi,
Sez. distaccata di Francavilla Fontana, con sentenza depositata il 18 febbraio
2003, accoglieva la domanda.
Con citazione notificata
il 4-4-2003, il Comune di xx interponeva appello.
Costituitosi il
contraddittorio, la Cooperativa xxxx chiedeva rigettarsi l’appello. La Corte
d’Appello di Lecce, con sentenza 14- 4/11-5-2005, rigettava l’appello.
Ricorre per cassazione il
Comune di Oria, sulla base di tre motivi.
Resiste con controricorso
la Cooperativa Oasi.
Le parti hanno depositato
memorie per l’udienza.
Diritto
Va dapprima esaminata
l’eccezione di inammissibilità del ricorso, sollevata dalla controricorrente
per violazione dell’art. 365 c.p.c., non essendo il difensore munito di procura
speciale, ma soltanto di mandato a margine del ricorso, da parte del Sindaco e
del Direttore Generale, senza che sia indicata, con data e numero, la delibera
di giunta, necessaria per la rappresentanza in giudizio, delibera che non
risulta neppure allegata al ricorso.
L’eccezione è infondata.
Questa Corte, a Sezione
Unite (Cass. n. 17550 del 2002) ha precisato che nel nuovo ordinamento delle
autonomie locali, competente a conferire al difensore del Comune la procura
alle liti è il Sindaco, non essendo necessaria l’autorizzazione della giunta
municipale, posto che al Sindaco è attribuita la rappresentanza dell’ente,
mentre la Giunta Comunale ha una competenza residuale, sussistente soltanto nei
limiti di cui norme legislative o statutarie non la riservino al Sindaco.
Con il primo motivo, il
ricorrente Comune lamenta violazione ed erronea applicazione del D.P.R. n. 616
del 1977, art. 23 lett. c);
violazione di principi in
tema di legittimazione ed interesse ad agire; erronea, omessa od insufficiente
motivazione.
Con il secondo, il
ricorrente lamenta violazione del R.D. n. 2240 del 1923, artt. 16, 17; della
legislazione in materia di contabilità degli enti locali, trasfusa nel D.Lgs.
n. 267 del 2000, nonché del vigente Regolamento Comunale di contabilità;
omessa, insufficiente
contraddittoria motivazione.
Con il terzo motivo, il
Comune lamenta violazione dei principi e della normativa codicistica sull’onere
e sull’acquisizione della prova; omessa ed insufficiente motivazione.
Sostiene il Comune
l’”eccezionalità” della previsione di cui al D.P.R. n. 616 del 1977, art. 23
lett. c), che si riferisce “agli interventi in favore dei minorenni soggetti a
provvedimenti dell’autorità giudiziaria minorile nell’ambito della competenza
amministrativa e civile”, necessariamente di stretta interpretazione e
insuscettibile di procedimento analogico o di estensione;
l’intervento si dovrebbe
effettuare, a carico del Comune, soltanto, (a favore di minorenni), e non dei
loro genitori.
Va osservato che la
predetta norma non appare affatto “eccezionale”.
Essa si inserisce
nell’ambito del generale trasferimento di funzioni amministrative, esercitate
dallo Stato, nella sua articolazione centrale o periferica, e da enti pubblici
nazionali o interregionali, ai sensi dell’art. 117 Cost.. Si parla di
“ordinamento ed organizzazione amministrativa, servizi sociali, sviluppo
economico, assetto ed utilizzazione del territorio”. Si precisa ulteriormente
che la nozione di beneficenza pubblica concerne tutte le attività relative, nel
quadro della sicurezza sociale, alla predisposizione ed erogazione dei servizi
gratuiti o a pagamento, di prestazioni economiche a favore di singoli e di gruppi,
escluse le sole funzioni relative a prestazioni di natura previdenziale. Assai
opportunamente si fa riferimento specifico ad alcune funzioni che, in quanto
relative a soggetti destinatari di provvedimenti dell’autorità giudiziaria,
difficilmente avrebbero potuto considerarsi, per sola via interpretativa,
rientranti nel generale trasferimento: in particolare la previsione, già
indicata, relativa agli interventi in favore di minori soggetti a provvedimenti
dell’autorità giudiziaria minorile nell’ambito della competenza civile ed
amministrativa. Alla Regione compete la potestà legislativa sulle materie
trasferite e la funzione generale di indirizzo, programmazione, controllo; ai
Comuni sono attribuite tutte le funzioni amministrative di carattere operativo,
relative all’organizzazione ed erogazione dei servizi di assistenza e
beneficenza.
Va altresì osservato che
gran parte delle funzioni assistenziali alle famiglie e ai minori, erano in
passato controllate e/o direttamente esercitate dall’Opera Nazionale Maternità
e Infanzia, disciplinata dal T.U. n. 2316 del 1934. In particolare l’Opera
provvedeva “per il tramite dei suoi organi provinciali e comunali” (art. 4)
alla protezione e all’assistenza delle gestanti e delle madri bisognose e
abbandonate, nonché dei bambini lattanti e divezzi fino al quinto anno,
appartenenti a famiglie che non potevano prestare loro tutte le cure necessarie
per un razionale allevamento.
I Comitati di patronato,
a base comunale, organizzavano e attuavano l’assistenza alla maternità, con
ambulatori specializzati, adoperandosi perché le madri allattassero i loro
figli, e questi fossero sorvegliati e curati nel periodo dell’allattamento e
dopo il divezzamento (art. 13). E il regolamento di esecuzione (R.D. n. 718 del
1926) della L. n. 2277 del 1925, rimasto in vigore, dopo l’abrogazione di essa,
ad opera del predetto T.U. Del 1934, prevedeva, all’art. 136, che fosse
disposta “dai Comitati di patronato l’ammissione della madre del bambino in un
laboratorio nido o in un albergo materno”, precisando che la separazione del
bambino dalla madre, mediante il suo ricovero in un asilo per lattanti o
divezzi, non poteva essere consentito che “in casi assolutamente eccezionali”.
L’UNMI fu sciolta con L. n. 698 del 1975 (anteriormente quindi al D.P.R. n. 616
del 1977): ai Comuni vennero trasferite le funzioni amministrative relative
agli asili nido e ai consultori familiari; alle Province furono attribuite “le
funzioni amministrative esercitate di fatto dai Comitati Provinciali OMNI”
(art. 2). Il D.P.R. n. 616 del 1977, sopra ricordato, all’art. 2 precisava
bensì che a Comuni e Province residuavano le funzioni amministrative, già loro
spettanti, secondo la legge, ma la successiva L. n. 328 del 2000 – legge quadro
per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali,
all’art. 6, stabilisce che ai Comuni spetta l’erogazione delle attività
assistenziali, già di competenza delle Province.
Si può considerare quindi
il Comune, a buon diritto, come successore dell’articolazione locale dell’Opera
Nazionale Maternità e Infanzia, nell’attività di erogazione delle prestazioni
di assistenza.
Venendo al caso di
specie, il Giudice a quo, con motivazione adeguata e non illogica, chiarisce
che il Tribunale Minorile aveva disposto l’affidamento di una minore di mesi
diciotto, all’istituto di casa famiglia “(OMISSIS)”, prevedendo che “avrebbe
dovuto” essere accolta pure la madre, nell’ambito di un contesto familiare
degradato e caratterizzato altresì da inadeguatezza economica. Il provvedimento
non prevedeva – come precisa la pronuncia impugnata – una presenza meramente
facoltativa della madre; al contrario, la continua presenza della M. era
indispensabile per il buon esito dell’affidamento nell’interesse esclusivo e
diretto della minore, considerata, tra l’altro, la sua tenerissima età.
In tal senso, di fronte
all’ordine del Giudice e all’obbligo ope legis del Comune, non rileva la
necessità di un rapporto diretto, o magari di una convenzione tra Cooperativa e
Comune, né si applicano le disposizioni sui contratti della pubblica
Amministrazione. né sussistono problematiche di contabilità, trattandosi di
prestazione dovuta ex lege.
Quanto all’affermazione
che la Cooperativa xxxx non avrebbe fornito prova in ordine all’an e al quantum
della prestazione in esame, si tratta di eccezione, proposta per la prima volta
in appello (in primo grado il Comune risultava contumace, che amplierebbe
illegittimamente il thema decidendum, e, in ordine alla “conguità” della
prevenzione, svolta de tutto genericamente.
Vanno dunque rigettati i
primi due motivi del ricorso, in quanto infondati, e dichiarato inammissibile
il terzo.
Conclusivamente, il
ricorso va rigettato.
Le spese seguono la
soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il
ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese de presente giudizio
di legittimità, che liquida in Euro 800,00 per onorari di cui Euro 100,00 per
esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, il
28 aprile 2010.
Depositato in Cancelleria
il 3 settembre 2010
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