SOLO LE MODIFICHE EDILIZIE CAMBIANO LA DESTINAZIONE D'USO
Per il T.U. un altro rinvio
REPUBBLICA
ITALIANA N.2586/03 REG.DEC.
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO N. 8440 REG.RIC.
Il
Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale, Sezione Quinta ANNO 2002
ha pronunciato la
seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello
proposto dalle signore Cinzia PIMPINELLI e Vilma POLVERARI, residenti in
frazione Lucrezia di Cartoceto, quali eredi del signor Aldo PIMPINELLI,
deceduto il 3 maggio 2001 e in vita residente in Cartoceto, difese dagli
avvocati Bruno Aiudi e Luciano Filippo Bracci e domiciliate in Roma, Largo
Teatro Valle 6;
contro
il comune di CARTOCETO,
non costituito in giudizio;
per l’annullamento
della sentenza 24
giugno 2002 n. 671, con la quale il tribunale amministrativo regionale per le
Marche ha respinto il ricorso contro il provvedimento del comune di Cartoceto 8
settembre 2000 n. 403, contenente ordine di ripristino dell’uso agricolo di un
immobile adibito allo svolgimento di attività artigianale.
Visto il
ricorso in appello, notificato il 27 settembre e depositato il 15 ottobre 2002;
vista la
propria ordinanza 5 novembre 2002 n. 4812, con la quale è stata sospesa
l’esecutività della sentenza impugnata;
visti
gli atti tutti della causa;
relatore,
all’udienza del 28 marzo 2003, il consigliere Raffaele Carboni. Nessuno è comparso
per le parti.
ritenuto
in fatto e considerato in diritto quanto segue.
FATTO
Il
comune di Cartoceto, con il provvedimento indicato in epigrafe, premesso che il
signor Pimpinelli aveva consentito che in un immobile di sua proprietà, che era
un capannone per ricovero di attrezzi agricoli, s’istallasse l’attività
artigianale di falegnameria esercitata dalla società Amatori Punto Casa di
Amatori Sandrino & Figli, ha ingiunto il ripristino dell’uso originario,
pena l’acquisizione dell’immobile al patrimonio comunale; precisando che
l’opera abusiva realizzata consisteva nella suddetta istallazione della
falegnameria.
Il
signor Pimpinelli con ricorso al tribunale amministrativo regionale per le
Marche notificato il 9 novembre 2000 ha il impugnato il provvedimento esponendo
che l’immobile era stato costruito in base a un nulla-osta comunale del 12
gennaio 1956, era munito di permesso di abitabilità rilasciato l’8 aprile 1957
ed era a lui pervenuto per eredità nel 1989; l’attività originariamente
svoltavi era la raccolta e il confezionamento di prodotti ortofrutticoli da
parte dell’imprenditore ditta Formentini Giuseppe cui l’immobile era stato
locato, e successivamente l’immobile era stato adibito a lavorazione del ferro
e poi ancóra a falegnameria. Tutte le predette destinazioni erano note al
comune, al quale era stato denunciato volta volta l’inizio dell’attività. Il
ricorrente aggiungeva che nella domanda diretta ad ottenere dal comune il
permesso di costruzione aveva specificato che il progetto era per la “costruzione
di un capannone agricolo di tipo industriale per la raccolta e confezione di
prodotti ortofrutticoli”. Ciò premesso, il ricorrente ha dedotto
l’illegittimità dell’atto impugnato e ne ha chiesto l’annullamento per i motivi
seguenti.
1) I fatti erano
erroneamente rappresentati, perché l’immobile costruito su un terreno di soli
700 mq, a ridosso dell’abitato e con accesso diretto dalla pubblica via, non
era al servizio di nessun fondo agricolo e non era mai stato destinato a
ricovero di attrezzi agricoli;
2) Per l’immobile era
stata rilasciata licenza di abitabilità, che all’epoca era prevista solo per le
abitazioni e per gli opifici, non anche per i ricoveri per attrezzi agricoli.
3) L’articolo 8 della
legge 28 febbraio 1985 n. 47 elenca le opere edilizie qualificabili come
variazioni essenziali (rispetto ai progetti autorizzati dal comune con
concessione edilizia) e, per quanto riguarda le variazioni d’uso, ne prevede la
rilevanza solo quando esse comportino variazioni negli standard urbanistici; cosa
che, nella specie, non si era verificata.
4) Il provvedimento non
specificava su quale norma si fondasse, posto che, all’epoca della costruzione,
il comune non aveva nessuno strumento urbanistico e nell’immobile poteva essere
esercitata qualsiasi attività.
Il
tribunale amministrativo regionale con la sentenza indicata in epigrafe ha
respinto il ricorso, essenzialmente sul rilievo che la legge regionale delle
Marche 8 marzo 1990 n. 13 elenca tassativamente la tipologia delle costruzioni
ammesse nelle zone agricole, e prevede che tali costruzioni debbano avere, in
ogni caso, una destinazione finalizzata all’esercizio delle attività dirette
alla coltivazione dei fondi, alla silvicoltura e all’allevamento e alle
attività produttive connesse; e pertanto non consente di adibire l’immobile,
che nella licenza edilizia del 1956 era stato qualificato come capannone
rurale, ad attività di falegnameria.
Appellano
le eredi del signor Pimpinelli, le quali censurano la sentenza allegando
l’estraneità della citata legge regionale rispetto al provvedimento e
all’oggetto del giudizio e ripropongono le censure dedotte in primo grado
(motivi d’appello primo e secondo); con un terzo motivo esse deducono il
difetto d’interesse del comune al provvedimento, perché esso, non notificato
alla comproprietaria signora Polverari, è ineseguibile.
DIRITTO
Il terzo
motivo di ricorso costituisce motivo nuovo in appello, come tale inammissibile;
peraltro non è chiara la finalità della censura, perché, se il provvedimento
fosse inutile e ineseguibile, come le appellanti sostengono, se ne dovrebbe
dedurre che esse non hanno interesse a coltivare l’impugnazione del
provvedimento.
Per il
resto i motivi del ricorso di primo grado, riproposti in appello e che possono
essere esaminati congiuntamente, sono fondati.
L’attività
che di fatto venga svolta in un immobile non ha nulla a vedere con la normativa
edilizia, per la quale rileva soltanto la destinazione d’uso impressa
all’immobile dalle sue caratteristiche architettoniche in sede di costruzione o
con successive opere di modificazione; né la normativa edilizia esige che un
immobile rimanga per sempre destinato all’originaria destinazione, intesa come
attività che vi si svolge, o alla destinazione specifica che venga indicata in
sede di concessione edilizia. Altra cosa dalla normativa edilizia, dalle sue
violazioni e dalla relativa repressione, è che le norme di polizia urbana o di
polizia rurale consentano o meno lo svolgimento di determinate attività in
determinate zone del territorio comunale. Perciò la giurisprudenza ha sempre
affermato che le modificazioni di destinazione d’uso di un immobile, che
richiedono autorizzazione edilizia senza la quale sono sanzionabili come opere
abusive, sono quelle realizzate appunto mediante opere edilizie (vedansi per
esempio, fra le tante decisioni della Sezione, 2 febbraio 1995 n. 180 e 24
ottobre 1996 n. 1268). Tale principio risulta positivamente dalla legge 28
febbraio 1985 n. 47, contenente norme in materia di controllo dell'attività
urbanistico-edilizia, la quale dopo avere disciplinato all’articolo 7 il
procedimento sanzionatorio per le “Opere eseguite in assenza di concessione, in
totale difformità o con variazioni essenziali”, all’articolo 8, “Determinazione
delle variazioni essenziali” (ora abrogato dall’articolo 136 del decreto
legislativo 6 giugno 2001 n. 378 e sostituito dalle disposizioni dell’articolo
32 del testo unico delle disposizioni in materia edilizia emanato con decreto
del presidente della repubblica 6 giugno 2001 n. 380), stabilisce che possono
essere considerate “variazioni essenziali” (di un immobile rispetto al progetto
approvato dal comune) esclusivamente gl’interventi comportanti: «a) mutamento
della destinazione d'uso che implichi variazione degli standards previsti dal
decreto ministeriale 2 aprile 1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97
del 16 aprile 1968; b) aumento consistente della cubatura o della superficie di
solaio da valutare in relazione al progetto approvato; c) modifiche sostanziali
di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della
localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza; d) mutamento delle
caratteristiche dell'intervento edilizio assentito in relazione alla
classificazione dell'articolo 31 della legge 5 agosto 1978, n. 457; e) violazione
delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a
fatti procedurali». Nulla di tutto ciò si è verificato nel caso in esame, né è
pertinente il richiamo operato dalla sentenza a una legge regionale marchigiana
la quale, in quanto attenga alle caratteristiche dei fabbricati, nulla muta nei
principi sopra enunciati.
In
conclusione l’appello dev’essere accolto, e il provvedimento dev’essere
annullato. Le spese séguono la soccombenza e si liquidano in € 1.500 per il
giudizio di primo grado e 2.500 per il grado d’appello.
Per questi motivi
Il
Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Quinta Sezione, accoglie l’appello
indicato in epigrafe e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata,
annulla il provvedimento 8 settembre 2000 n. 403 del comune di Cartoceto.
Condanna il comune predetto al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in
euro quattromila, a favore solidale delle appellanti.
Così
deciso in Roma il 28 marzo 2003 dal collegio costituito dai signori: